Più vita con Mirvetuximab

Mirvetuximab è il nuovo farmaco destinato a cambiare lo standard attuale di cura del tumore all’ovaio perché è superiore alla chemioterapia tradizionale nel raggiungere diversi obiettivi, a partire dal più importante: allungare la sopravvivenza delle pazienti che, nello specifico, hanno un carcinoma ovarico resistente alla terapia con platino e che esprime elevati livelli di recettore alfa-folato.

A dirlo sono gli esiti dello studio MIRASOL presentato al convegno annuale dell’American Society of Clinical Oncology (Asco) «È il primo medicinale, dopo 20 anni di attesa, che riesce ad allungare la sopravvivenza delle donne con una neoplasia platino-resistente — sottolinea Nicoletta Colombo, direttore del Programma di Ginecologia oncologica all’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano e autrice principale dello studio—. Avevamo un grande bisogno che non riuscivamo a colmare e questo è il primo passo avanti rispetto alla chemioterapia standard, con la quale la sopravvivenza media delle donne è di circa un anno (quando insorge resistenza al platino), ora si arriva a un anno e mezzo».

Insomma si guadagnano sei mesi. Non sono pochi? «Di ricerche ne sono state condotte molte, ma mai nessuna fino a oggi era riuscita a prolungare la vita delle malate con un tumore all’ovaio resistente al platino, che è la chemioterapia generalmente più efficace contro questo tipo di cancro — afferma Sandro Pignata, direttore dell’Oncologia medica uro-ginecologica all’Istituto dei Tumori Pascale di Napoli, che ha partecipato allo studio. Certo sei mesi possono sembrare poco, ma sono passi avanti che ci fanno comunque sperare di poter ottenere vantaggi ulteriori in fasi più precoci della malattia, com’è già accaduto con altri medicinali». Per esempio, anticipando la somministrazione di Mirvetuximab, che alle partecipanti allo studio MIRASOL è stato dato come seconda, terza o quarta linea di trattamento.

«Mirvetuximab soravtansine è un medicinale di ultima generazione, che fa parte della famiglia degli anticorpi coniugati, già in uso contro diversi tumori solidi e del sangue. Si tratta di molecole che combinano un anticorpo monoclonale in grado di identificare le cellule tumorali con alta specificità a un chemioterapico che si occupa di distruggerle»— aggiunge Domenica Lorusso, professore associato di Ginecologia oncologica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, altra rappresentante italiana dello studio clinico. 

“Circa il 30% delle donne con un carcinoma ovarico esprime il recettore alfa dei folati, è quindi una nicchia — conclude Colombo —, ma in base a questi dati ci aspettiamo che arrivi un ok da parte dell’Agenzia regolatoria europea Ema (negli Usa ha già ricevuto l’approvazione accelerata)».