Presentata la Ricerca "InACTO": una fotografia fatta più di ombre che di luci
Sebbene occupi il 10° posto tra le neoplasie femminili, il tumore dell'ovaio - che in Italia interessa 50mila donne - rimane ancora oggi uno dei big killer a causa della sua elevata mortalità. Nel 2020 le nuove diagnosi sono state 5.200, oltre 3mila i decessi per una sopravvivenza che non supera il 40% a 5 anni e il 31% a 10 anni.
La letalità di questa neoplasia è legata sia alla mancanza di strumenti di prevenzione e/o di diagnosi precoce, sia alla asintomaticità del tumore che causa diagnosi tardive nel 70% dei casi, sia infine al fatto che purtroppo solo molto recentemente sono arrivati i primi farmaci capaci, se non di guarire, quantomeno di migliorare la sopravvivenza. Aderire alle sperimentazioni cliniche rappresenta quindi per le donne colpite da tumore ovarico l’unica possibilità di partecipare al miglioramento dei trattamenti.
Ma cosa sanno le donne degli studi clinici randomizzati? Quante di loro partecipano a questi studi e perché? Che fiducia hanno nelle ricerche cliniche e nel loro medico?
A queste domande risponde per la prima volta Ricerca inActo, uno studio multicentrico, osservazionale, prospettico promosso dall’associazione pazienti Alleanza contro il Tumore Ovarico per fotografare conoscenze, attitudini ed esperienze verso gli studi clinici in donne con diagnosi di tumore ovarico.
La ricerca è stata presentata alla stampa e alla comunità scientifica il 21 aprile in un evento web cui hanno partecipato insieme a Nicoletta Cerana, presidente di Acto onlus, la senatrice Maria Rizzotti, Paola Mosconi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS e coordinatrice dello studio, le oncologhe Nicoletta Colombo e Domenica Lorusso in rappresentanza rispettivamente dell’Istituto Europeo di Oncologia e della Fondazione Policlinico Gemelli e Maurizio Belfiglio dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).
La ricerca, condotta dall’Istituto Mario Negri IRCCS di Milano, ha coinvolto in 12 Regioni 25 tra i migliori ospedali italiani specializzati nella cura del tumore ovarico e aderenti alle reti di ricerca clinica M.I.T.O e MaNGO. Iniziata nel 2019 e conclusa nel settembre 2020, la ricerca è il primo studio indipendente su questo argomento così cruciale per il futuro della malattia ovarica.
Mappa dei centri partecipanti
I risultati
Allo studio hanno partecipato 359 pazienti di cui 348 incluse nell’analisi per il 73,5% di età superiore ai 56 anni (come noto, il tumore ovarico colpisce in maggioranza dopo i 55 anni e dopo la menopausa).
La conoscenza degli studi clinici purtroppo è ancora limitata: il 59% delle rispondenti ha sentito parlare di studi clinici attraverso i mezzi di comunicazione (internet, giornali, tv) o dal medico e solo il 34,9% conosce il significato della parola randomizzazione e, quindi, come si svolge la sperimentazione clinica di un nuovo trattamento. Il livello educativo influenza le conoscenze: meno della metà delle donne con minore livello educativo ha parlato di studi clinici con il proprio medico (46,4%) contro il 69,7% delle rispondenti con livello educativo più alto.
Il 91,5% delle rispondenti è disponibile a partecipare a una sperimentazione perché convinte che gli studi clinici portino benefici sia all’individuo che alla società ma più della metà (54%) non è in grado di valutare l’entità di tali benefici e neppure se tali benefici siano superiori ai rischi connessi alla partecipazione.
Sempre a livello di attitudini, il 56% è favorevole a partecipare a uno studio se proposto o a raccomandare la partecipazione di un amico o familiare (55,4%). Ma nonostante questa disponibilità all’88% delle rispondenti non è mai stato proposto di partecipare in passato ad uno studio clinico
Nella decisione di partecipare pesa con forza il ruolo del medico: il 90,3% delle pazienti attribuisce al medico un ruolo determinante nella decisione di aderire a uno studio clinico ed il 91,5% ritiene giusto che i medici invitino a partecipare a uno studio anche senza la certezza che un nuovo trattamento possa dare risultati migliori rispetto a quello disponibile.
Poco meno della metà delle pazienti pensa che le ragioni che spingono il medico a proporre l’adesione a uno studio clinico siano il bene del paziente e della comunità (47,2%) ma anche il progresso della scienza e della medicina (42,9%). Solo una piccola percentuale ritiene che l’invito a partecipare a uno studio clinico sia fatto dal medico perché non saprebbe come curare altrimenti la paziente (5,6%) o per tornaconto personale (2,4%), o per interesse delle industrie farmaceutiche (1,8%).
Il fatto di delegare in toto al medico la decisione di partecipare a uno studio clinico influisce anche sulle opinioni espresse prima di aderire. Tra sette opzioni di risposta, il 30,2% ritiene importante essere ampiamente informata su vantaggi e svantaggi, sul gruppo di medici cui fare riferimento (23,8%), su cosa succederà in termini di visite e costi extra (19,4%). Il 34,9% pone attenzione agli scopi per cui vengono raccolti i dati e dove, da chi e per quanto tempo (21,2%).
Infine, il 71,2% delle rispondenti attribuisce importanza al coinvolgimento delle associazioni che rappresentano pazienti e cittadini nell’ideazione e nella progettazione di uno studio clinico. Alle associazioni è attribuito soprattutto un ruolo determinante nel migliorare l’informazione (20,9%), nel facilitare la partecipazione delle pazienti (20,3%) e nel dare suggerimenti per condurre studi clinici di reale vantaggio per i pazienti (19,8%).
Le conclusioni
“Dalla ricerca emergono più ombre che luci. Se da un lato le pazienti hanno una sostanziale fiducia nella ricerca clinica e nel ruolo del medico, dall’altro lato la conoscenza degli studi clinici è limitata: non si sa come si svolgono, non se ne conoscono bene i rischi e i benefici e la partecipazione è scarsissima - ha dichiarato Nicoletta Cerana, presidente di Acto onlus.
Il dato peraltro riflette la bassa percentuale di adesione delle pazienti a livello mondiale, che non supera il 20% (ricerca Every Woman – World Ovarian Cancer Coalition 2018).
“Un’altra ombra è legata alla tendenza delle pazienti a delegare totalmente al medico la decisione di aderire o meno ad uno studio clinico. Le risposte fornite sono indicative di un livello ancora molto basso non solo di informazione ma soprattutto di autonomia decisionale e di responsabilizzazione ed emancipazione delle pazienti dal medico.”
Non comprendendo bene gli scopi della ricerca, le alternative possibili e il peso dei rischi e dei benefici, le pazienti non legano la decisione ai propri desideri, obiettivi e valori ma si limitano a riversare sul medico tutta la responsabilità delle decisioni.
Questa situazione apre alle associazioni pazienti come Acto, il cui ruolo è ampiamente riconosciuto da tutte le rispondenti (71,2%), ampi spazi di intervento non solo per migliorare la conoscenza degli studi clinici (20,9%) ma anche e soprattutto per rendere ogni donna più informata e coinvolta nel percorso di cura così che abbia la forza e il potere di decidere in completa autonomia.
Tutte le strategie di prevenzione e cura del tumore ovarico si basano sulla ricerca clinica. Per questo la Carta Universale del Tumore Ovarico, promossa dalla World Ovarian Cancer Coalition, la pone tra le 6 priorità mondiali e Acto, fotografando la situazione in Italia, ha inteso dare il proprio contributo al miglioramento della percezione e della partecipazione alla ricerca clinica da parte delle donne coinvolte in prima persona e, di conseguenza, delle loro famiglie e della società. Proprio per questa ragione, la ricerca è stata discussa in un incontro diretto con oltre 100 pazienti alle cui domande hanno risposto, accanto ai rappresentanti di Acto, le ricercatrici dell’Istituto Mario Negri di Milano - Paola Mosconi, Anna Roberto ed Elena Biagioli e le oncologhe ed esponenti fin dalla fondazione del Comitato Scientifico di Acto Nicoletta Colombo (IEO) e Domenica Lorusso (Fondazione Policlinico Gemelli).
A questo link è possibile rivedere la registrazione dell'incontro con le pazienti.